#UiFlashback: 9 giugno 53 a.C. – La battaglia di Carre

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Un disastro avvenuto non per inevitabili motivi strategici ma per ragioni squisitamente personali. Questa, in sintesi, può definirsi la battaglia combattuta il 9 giugno 53 a.C presso la città di Carre (oggi Harran, Turchia) tra l’esercito guidato dal triumviro Marco Licinio Crasso e i Parti.

Schiacciato tra le prorompenti personalità di Cesare e Pompeo, Crasso – che era governatore della Siria– desiderava ottenere un trionfo in grado di conferirgli prestigio e credibilità. Quando alla morte del re dei Parti Fraate III, i suoi figli (Mitridate e Orode) iniziarono a contendersi il trono, Crasso, che era uomo tanto ricco che ambizioso, colse l’occasione per intervenire, con l’obiettivo di conquistare il regno e di porre fine alla sempre incombente minaccia rappresentata dai Parti, ostici nemici di Roma.

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Nel 55 a.C. Crasso giunse in Siria e reclutò, grazie alle sue enormi ricchezze, una poderosa armata di sette legioni, cui si unirono circa 4.000 soldati ausiliari, 4.000 cavalieri di cui mille Galli e i reparti di cavalleria forniti dal re di Armenia, suo alleato. Il generale avrebbe potuto entrare tranquillamente nel regno dei Parti da nord, valicando le montagne armene, ma per sorprendere il nemico preferì muovere da sud, attraverso il deserto siriano: la decisione fu presa, secondo quanto scrive Plutarco, seguendo il consiglio di alcuni nobili Parti che volevano vendicarsi del loro re per averli orrendamente mutilati.

Crasso credette ingenuamente alle loro parole e l‘errore di valutazione fu imperdonabile: i Parti infatti gli avevano teso una trappola, così Crasso si trovò a condurre l’armata in una distesa riarsa, senza approvvigionamenti e bersagliato facile dal continuo tiro degli arcieri nemici, che dopo aver colpito si dileguavano nel nulla. Il 9 giugno i due eserciti giunsero finalmente alle armi. Crasso, anziché schierare i suoi secondo il consueto modello che prevedeva la fanteria al centro e le ali di cavalleria ai lati, preferì disporsi a quadrato contro l’incalzante cavalleria avversaria.

Dopo la sortita iniziale dei loro pesanti cavalieri catafratti, i Parti inviarono i loro rapidi arcieri a cavallo a colpire i Romani. Mentre buona parte dei suoi cadevano, Crasso cercò di contrattaccare e inviò parte della cavalleria, guidata dal giovane figlio Publio, contro i cavalieri nemici.

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L’azione parve avere successo perché una parte delle unità partiche iniziò a ritirarsi verso nord, ma si trattava anche in questo caso di una trappola. Publio, galvanizzato, li insegui con l’intenzione di sbaragliarli definitivamente ma si trovò solo e circondato dai nemici e morì con i suoi nello scontro. La sua testa mozzata fu fatta recapitare a Crasso issata su una lancia, generando nell’esercito un grande sconforto; mentre la battaglia infuriava i Romani, incapaci di reagire, subirono enormi perdite.

Al calar delle tenebre, Crasso approfittò della tregua notturna per ripiegare silenziosamente verso Carre, lasciando al suo luogotenente Cassio l’iniziativa sul campo. I Parti però lo scoprirono e qualche giorno dopo il loro comandate Surena si presentò davanti alla roccaforte di Carre chiedendo la resa dei Romani.

Crasso cercò di fuggire nella notte, ma per l’ennesima volta fu tradito da un certo Andromaco, si avventuro tra le paludi e fu messo alle strette dal nemico. Trinceratosi su un colle, si convinse infine ad accettare le condizioni di pace.

Poco dopo, la testa di Crasso veniva recapitata a Orode II: il re dei Parti fece versare oro fuso nella bocca del cadavere in segno di dileggio in quanto Crasso, già ricchissimo di suo, aveva dimostrato di agire sempre e soltanto spinto dalla sua infinita brama di denaro.

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